Ironia
della sorte, ho finito di leggere Scavare una buca nei giorni in cui
la cronaca italiana tornava ad ospitare drammatiche vicende legate a
miniere come non avveniva dai tempi dei los 33 cileni. I 30 morti
ammazzati fuori dalla miniera della Lonmil in Sudafrica, due
settimane fa, e i 500 asserragliati dentro NuraxiFigus ancora oggi,
assommano tutti gli ingredienti di quanto di brutto si sta vedendo in
giro per il villaggio globale in questa nuova era di crisi. Mettetela
come volete, ma tagliarsi le vene a 400 metri di profondità,
come qualcuno è arrivato a fare in Sardegna, è cosa
pesa.
venerdì 31 agosto 2012
la dignità di chi scava in cava
“Noi
facciamo attenzione al lavoro. E non è perché siamo
migliori degli altri. Solo ci piace fare le cose come devono esser
fatte. (..). Se sbagli qui, il mondo ci mette un attimo a crollarti
addosso”.
“Pensano
che tutto vada bene, pur di portarsi a casa uno stipendio, ma fare un
mestiere non c'entra un accidente con il guadagnare dei soldi. E io
ho faticato 40 anni qua dentro solo per venire un bel giorno in cava
e vederli leggere sul giornale fuori dalla testa quelle sulle
stronzate sugli incidenti sul lavoro. Come se il lavoro accoppasse i
cristiani. Nessun lavoro ammazza la gente. Sono le persone a farlo”.
Ecco
dove mi ha portato, quel libro. A scolpirmi in testa altre due frasi.
Che estrapolate dal resto del testo forse non si apprezzano in pieno; ma che,
garantisco, rendono l'idea meglio di tanti dibattiti su cosa voglia
dire fare con dignità e civiltà un lavoro, qualunque
esso sia. E più che mai, se è un lavoro di miniera o di
cava. A proposito di dignità, ci sono due pagine finali
folgoranti (le 198-199) del libro di Cavina, quelle in cui il padre
fa svestire alla figlia i vestiti alla moda acquistati con i guadagni
dei lavori di cui lei si vergogna. Troppo lunghe da copiare.
Cercatele, e leggetele.
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