lunedì 31 agosto 2015

Addentare le nuvole

Questa è la storia di un percorso verso la memoria che parte da una sala d'aspetto e arriva sulle vette più alte delle Dolomiti.

La sala d'aspetto è quella di uno studio dentistico, dove nell'inverno 2015 giacciono alcune riviste illustrate. Tra queste un arretrato di pochi mesi del mensile Bell'Italia: al suo interno il reportage fotografico da un museo 'tra le nuvole', creato per volere dell'alpinista Reinhold Messner in Veneto, sulla sommità del monte Rite (2183 metri) fino a quel momento a me sconosciuto. I pochi minuti che precedono un'otturazione sono sufficienti per accendermi una curiosità, che altre due visite alla dentista nel giro dei 4-5 mesi successivi (con relativi ripassi del giornale) trasformeranno in volontà. Quelle altane in vetro, protese verso un angolo giro di inimitabili vette, fanno correre il mio pensiero a due persone vicine quanto care, alle quali tutto ciò potrebbe risultare nuovo o affascinante. E quindi, meritorio di visita.





L'atipica agenda della mia estate 2015 trova spazio a metà luglio per un 'blitz' di quattro giorni nel Cadore. Imprevisti e lieti eventi mettono in forse il tutto pochi giorni prima, ma l'annullamento si trasforma in slittamento di poco più di un mese. E' così, poco dopo Ferragosto, il Monte Rite ci accoglie a metà di una mattina dal cielo variabile quanto intrigante. Con me, un over 70 ben portati, ed un 'cittino' pimpante di 10 anni scarsi, inebriati dal blitz per motivi diversi ma complementari.

Guadagniamo la vetta tramite una navetta attiva due volte all'ora con partenza dal passo Cibiana, difronte al Rifugio Remauro, quota 15530, che è anche la nostra base per un egregio vitto (lo strudel fatto in casa, su tutti) e alloggio. Giunti sul posto a metà del pomeriggio precedente, eravamo stati tentati dall'idea di anticipare il programma, idea vanificata (provvidenzialmente: avremmo fatto troppo in fretta) da un ritardo nell'ultima corsa della navetta. A causarla, l'improvvisa venuta al museo da parte del suo inventore, Reinhold Messner appunto. L'indomani, quando finalmente arriviamo a destinazione, di  lui restano solo le tracce non invasive che qua è là affiorano nel percorso espositivo, in forma di testimonianze scritte.



 Il Messner Montain Museum Dolomite è infatti tutt'altro che un luogo di autocelebrazione. Esteso lungo la galleria di quello che fu un forte militare della Grande Guerra, espone soprattutto volti, scritti e strumenti di altri personaggi. Gente la cui esistenza ha trovato senso sulle Dolomiti come l'antesignano Dolomieu, gli scalatori Comici e Benatti, i soldati che qui intorno combatterono e le donne che li attendevano trepidanti a valle.






Suggestive per l'architettura, oltre che per la visuale offerta, sono le tre altane panoramiche ricavate laddove alloggiavano armi pesanti in tempo di guerra. Una sorta di antipasto per ciò di cui lo sguardo può godere salendo sulla copertura in cemento della struttura, e spaziando nel restante perimetro percorribile della vetta di Monte Rite: Il Monte Pelmo, il Civetta, San Vito, Cortina e gli altri abitati a valle nel Cadore, il Sassolungo di Cibiana.


 L'entusiasmo per la veduta è altissimo, addirittura quasi fatale: l'affaccio verso nord est coincide con uno strapiombo chilometrico, senza protezioni. Obiettivamente un pericolo per distratti o sofferenti di vertigini. Unica sbavatura, mi pare, in una realizzazione lodevole se non altro per la velocità (4 anni) con cui è diventata realtà.




Ripenso a quel giorno in sala d'aspetto dalla dentista. A quella prima impressione, che ora vedo confermata: di per sé il Museo  nelle nuvole, uno dei sei ideati da Messner, non varrebbe il viaggio. Ma in realtà è un espediente, un ideale lasciapassare verso un'esperienza che è davvero notevole. Che oltre a quanto già detto, include la calda atmosfera del Rifugio in quota (il Dolomite) dove gustare pastin con polenta e funghi,conoscere cordiali compagni di escursione, far divertire i bambini con un simpatico concorso di disegni su tovaglietta;  i 7 km di camminata tra la vetta e la base, che noi percorriamo a scendere senza sosta ma senza fretta in un'ora e mezzo; la mandria di yak che pascola libera a pochi metri dai passanti; le svariate possibilità di visita dei dintorni che può aprirti un soggiorno in zona di almeno un paio di giorni. Nel caso nostro, verso Cibiana, San Vito, Selva di Cadore e ascendendo ancora più in alto, sulla Marmolada.  Scoprendo altre memorie inattese e dense di significato.


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domenica 30 agosto 2015

Echi di guerra grande tra i ghiacciai



“Ci stipavano in 40 dentro una baracchetta che poteva tenerne 15”. Letta con un minimo di attenzione una frase del genere non può non impressionarti, e poco importa se si riferisce a soldati, rifugiati, carcerati o soldati.

Se però poco dopo averla letta hai la possibilità di vedere di persona quella baracchetta, l'impressione sferza lo stomaco. Specie se questa è scavata nella roccia, circondata da ghiacciai e affacciata su un dirupo esteso per migliaia di metri.




La baracchetta è uno dei 'ricoveri' in cui tra il 1915 e il 1918 malcapitati italiani e austriaci tentavano invano di scampare al gelo, al vento, agli spari nemici ed al terrore. La roccia è quella di Punta Serauta, 2900 metri; il ghiacciaio quello della Marmolada, oggi esteso per alcune centinaia di metri sotto quota 3100, ma un secolo fa sicuramente ben più ampio e spesso, anche d'estate. Il dirupo e' quello a cui si espone chiunque voglia compiere di persona (“a proprio rischio e pericolo” come recita un apposito cartello) il percorso che si abbarbica sulla dolomite verso quella ed altre baracchette, le postazioni di tiro, l'infermeria, il comando di reparto.





La frase, quella frase, e' una delle tante carpite alle memorie in cui quegli uomini si aggrappavano nei loro giorni del nulla. E riprodotta in bella vista nel nuovo Museo della Grande Guerra, recentissimo parto di un'operazione che sembra ben sposare marketing territoriale e documentazione storica. Lo alloggia il piano basso nella stazione 2 della funivia che da Malga Ciapela conduce fino a Punta Rocca, oggi il punto più elevato raggiungibile da comuni mortali in queste irripetibile contesto montano. Un impianto che ora beneficia di una componente aggiuntiva per lavorare a pieno regime anche d'estate, presentata al pubblico come gratuita per precisa strategia incentivante. Entrare al museo infatti non costa un euro a nessuno, fatto salvo che per arrivarci chiunque deve pagarne almeno 21 di funivia (riduzioni eccettuate).

Cosa mostra quindi, questo neo-museo della Grande Guerra? Tutto ciò che avvenne in quei terribili anni? No. Certo, non mancano due pareti di ricostruzione del contesto, e delle motivazioni che portarono l'Italia e le altre nazioni ad incrociare le armi; ma il vero cuore dell'esposizione è ciò che di tremendo avvenne sulla Marmolada, ovvero su quelle rocce che ti par di toccare guardando fuori dalle vetrate del percorso.











Vedi il percorso che gli austriaci scavarono nel ghiaccio per scampare al gelo. Le improbabili soluzioni per riparare viso, mani e piedi. Siringoni e velleitari medicamenti. Mozziconi di carte da gioco, di foto e di diari. Il sussulto d'eroismo che colpì gli italiani qui appostati nei giorni che seguirono a Caporetto. Vedi pistole, bombe a mano, fucili e quant'altro fu usato tra Punta Rocca e la Serauta, in quella che fu un'assurda quanto estenuante guerra di posizione. Reperti restituiti nell'arco di decenni dai ghiacciai sottostanti, complice un clima che in cent'anni è sicuramente cambiato.

Voluto e finanziato tra gli altri dalla società di gestione della funivia, questo museo fa buon ricorso a nuove tecniche espositive ed alla tecnologia: per vedere e ascoltare spezzoni di filmati in tema, per esporre qualche secondo la mano del visitatore a quel gelo che avvolgeva il corpo tutto dei soldati distaccati lassù.


 

L'effetto più 'speciale', in realtà, sono proprio quei finestroni che passo dopo passo ti ricordano che tutto ciò è avvenuto là fuori, in quella meraviglia della natura trasformata in girone infernale per uomini in divisa.  E se vuoi chiudere il cerchio, finita la visita esci fuori e vai fisicamente in quegli orridi anfratti dove l'esistenza di quegli uomini si annientò giorno dopo giorno, quando non tutto d'un tratto per mano del nemico. Sali tra mozziconi di roccia vanamente convertiti in scalini, scorri la mano sul cavo passante posato a parete che presto diventa l'unica misura di sicurezza, se continui nel cammino. Entri nei ricoveri, nell'infermeria, scruti il magazzino. Segui il flusso di visitatori che puntano verso un roccia più alta, illusoria vetta per il turista non alpinista. Continui a camminare, poi senti la tua scarpa inadatta scivolare sulla roccia. Ti capita una, due, tre volte. Una quarta più importante, ora che il camminamento si è fatto davvero irto e stretto. Guardi sotto: a valle sotto il tuo piede ci sono duemila metri di vuoto. Ti senti a un passo dal niente, precario per un attimo come  qui lo furono per anni, un secolo fa. Ti sovviene Ungaretti, realizzi che non è il caso di andare oltre. E torni indietro.




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Cibiana, a passeggio tra un libro di fiabe

Pensi al Cadore: alte cime coltri bianche in inverno, prati verdi e mandrie di mucche d'estate. Un habitat che ti sembra immutabile, dove storia, suolo e sottosuolo non hanno gran che da tramandare perché tutto è stato sempre così.  Pensi ad altri angoli del mondo e alle vicissitudini che hanno conosciuto, e rafforzi la tua convinzione. Poi giri un minimo per la valle, e l'impressione cambia. Almeno in un paio di casi.

Poco sotto l'omonimo Passo, Cibiana di Cadore è un villaggio di montagna disposto su tre parti: Pianezze, Masarié e Cibiana (di sopra e di sotto). Il colpo d'occhio in un pomeriggio di fine agosto è suggestivo, complice l'arcobaleno che lo sovrasta dopo un breve scroscio, se non fosse per alcuni tralicci ed un uso un po' troppo ricorrente alla lamiera ondulata in vece delle tegole, sui tetti di molte case.



Ma Cibiana non è solo un villaggio di montagna.  E' un libro di storie, leggende e fiabe in forma di villaggio. Le mura esterne delle case sono costellate di murales: vere e proprie opere d'arte, a volte anche molto diverse da loro, realizzate da mani venete ed internazionali. La più datata risale al 1980, la più recente al 2015: ad oggi in tutto sono 56. Dai dipinti sbucano gatti, cavalli, bambini, folletti; artigiani, boscaioli, saltatori di trampolino. Scene multicolori, non solo frutto di fantasia: per 'regola' generale ognuna di queste opere deve rappresentare una vicenda legata all'edificio che la alloggia. Il passante frettoloso può solo ipotizzarne alcuna; il visitatore 'slow' indugia per le strade, incontra un abitante, comincia a chiedere e a farsi...raccontare.  Cibiana è un po' Orgosolo, per citare un'altra esperienza visiva folgorante da me conosciuta in passato, anche se rispetto ai murales sardi qui i tratti sono generalmente più rotondi, fiabeschi, da...alta montagna; più simile ad Usseaux (Piemonte), a ben pensare. Il percorso 'espositivo' è facilmente percorribile anche grazie ad una pratica mappa realizzata dal Comune; a stento però si trova un libro che approfondisca il tema, e a stento si trova un luogo dove poterla ricercare: ci riusciamo sul far della sera, in un emporio che vende un po' di tutto, e dove tra merletti, lenzuola, giocattoli e cartoline una minuta e cordialissima figura femminile ci scova un bel libro illustrato sui murales.














Risalendo verso il Passo quando ormai il crepuscolo s'impone, lo sguardo cade su un'altra singolarità di Cibiana: la fabbrica di chiavi Errebi, insediata un questo angolo remoto di montagna con due ampie sedi produttive che si guardano di rimpetto. Perché proprio quassù? Troviamo la risposta in una didascalia dentro al Museo del Monte Rite: c'erano una volta delle miniere di ferro, un indotto produttivo che si sviluppò di conseguenza...e che oggi continua, sotto forma di chiavi.


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Cadore giurassico e mesolitico

C'era una volta un montanaro atipico, di nome Vittorino. Amava la montagna, percorrerla e 'scavarla'. Nondimeno amava il mare, compiendo traversare e suggestivi scatti. Nato a Selva di Cadore, un giorno si trovò a 'carezzare' per l'ennesima volta il gigante che sovrasta il paese, ovvero il Monte Pelmo, (il Pelmetto, in particolare) riconoscendo sulla sua 'pelle' dei singolari 'buchi': non semplice rughe del tempo, ma vere e proprie tracce del passaggio di....qualcuno. Quei qualcuno, fu appurato in seguito, erano dinosauri: ornitischi, coleosauri e prosauropodi, veri e propri animali del giurassico, transitati sul posto 220 milioni di anni fa.









Era la metà degli anni '80. In quegli stessi anni, Vittorino propiziò anche il ritrovamento dell'uomo di Mondeval: un figuro di un metro e sessantasette vissuto 7500 anni fa, e rinvenuto pressoché intatto in scheletro e corredo funerario nell'omonima località.







Due scoperte non banali. Tanto che nel giro di qualche anno Selva di Cadore riesce a farne la base per realizzare il museo che non c'era: intitolato a Vittorino Cazzetta, oggi ospita un calco a misura naturale del lastrone dolomitico che alloggia le impronte degli animali preistorici, e lo scheletro originale dell'omino mesolitico. Li ospita, e li spiega, ricorrendo ad un alternanza di luci, voci e suoni che rendono la visita accattivante per grandi e piccoli, incuriositi dal racconto del contesto in cui l'uomo e gli animali vissero, e della dinamica di ritrovamento.



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sabato 8 agosto 2015

Funghi

"...Il tempo cancella la memoria, e quando la memoria finirà l'irripetibile potrà ripetersi".
Sumao Tsuboi, superstite, intervistato da La Repubblica nel 70° annniversario di Hiroshima.

venerdì 7 agosto 2015

Tre allegri ragazzi morti. Con le gambe all'aria




Un tardo pomeriggio di fine luglio a Santa Cristina in Caio, nelle Crete senesi, lungo la strada che dalla Cassia si distacca verso Montalcino.

 E' qui che è stata condotta una campagna di scavo archeologico, alla ricerca di quella che in teoria avrebbe dovuto essere il primo luogo di culto cristiano della zona.  Per quattro settimane una decina di persone tra archeologi studenti e volontari hanno scavato in questo campo sotto il sole d'estate: in questa sera in cui il caldo certo non manca vengono presentati al pubblico i risultati. Deludenti, o forse no. In lotta contro lo scorrere dei secoli, e contro gli effetti di chissà quante arature, il team si è ad un certo punto illuso di aver individuato l'abside della primordiale chiesa in una curvatura  netta ritrovata nel terreno riportato alla luce. Ma la curvatura si è poi interrotta, senza completare il disegno absidale supposto: e la scoperta ha dovuto essere ridimensionata, almeno per il momento.

Cos'altro è riemerso, a Santa Cristina in Caio? Tracce di uno stabilimento termale, attiva già nel primo secolo Avanti Cristo. Residui dell'attività di una fornace, che  successivamente pare sia stata molto intensa. Un paio di capanne, modesti ripari in uso nei primi secoli Dopo Cristo. E tre insoliti cadaveri, risalenti al VI secolo, o successivi. Perché insoliti? Perché sepolti uno accanto all'altro e tutto con i piedi all'insù. Sì, proprio nella posizione in cui si espone una persona quando ha un mancamento, per favorire l'afflusso di sangue alla testa. Solo che questo di solito lo si fa ai vivi, e invece queste erano tre persone (due uomini e una donna, pare)
passate ad altra vita. Le prime in assoluto rivenute in questa posizione: di certo nei dintorni, forse nel mondo intero. Gli archeologi hanno lanciato appelli per recuperare notizie di altri rinvenimenti analoghi. Per ora nulla di simile sembra appurato nei quattro angoli del pianeta.






Con questa singolare incognita si è chiusa la campagna di scavo 2015 a Santa Cristina in Caio. La sesta estate consecutiva, per iniziativa di vari soggetti (Università di Siena e di Chieti, Comune di Buonconvento, Amici di Buonconvento, azienda agricola Ricci) dopo che alle prime ricerche di metà anni '90 era seguito un nuovo oblìo. Molto altro resta ancora da riportare alla luce, gli archeologi ne sono convinti; sperando che i lavori agricoli susseguitisi nei secoli più recenti sul sito non abbiamo disperso troppo. Su web e pagina facebook dedicati c'è ampia possibilità di approfondimento. Per l'attività di scavo se ne riparla l'anno prossimo, se ci saranno fondi; nel frattempo, il mistero delle salme con le gambe all'aria cerca risposta.