Ripreso
il cammino, non passa molto prima della nuova sosta. Arriva in
corrispondenza di una vasta radura, colore di fondo rigorosamente
nero. E' Serracozzo,
1800
metri sul mare.
Su di un lato, notiamo un lungo
costone di roccia lavica cristallizzata:
sembra una mezza pinna di balena. Daniele ci fa strada su un tratto
scosceso per diversi metri. Davanti agli occhi ci troviamo
improvvisamente una cavità oscura. E' la grotta
di Serracozzo.
E' lei, la nostra miniera di memorie all'improvviso.
Per
entrare abbassiamo schiena e gambe fino a trovarci per un attimo
carponi. Siamo finalmente dentro ad un ampio cono, esteso in altezza
(cinque metri circa) larghezza (3-4 metri) ma soprattutto lunghezza.
Si tratta di una delle 250 cavità naturali ufficialmente
censite sull'Etna. A crearle e distinguerle non è l'acqua bensì il
fuoco, il magma, i gas ed le reazioni che naturalmente si sprigionano
dopo un'eruzione. Nel caso di Serracozzo, tutto questo è avvenuto
nel 1971. Da due piccole luci in superficie penetrano i
raggi del sole: per un attimo immaginiamo di essere all'interno
di un tiankeng
cinese. Daniele ci intriga nell'indicarci una lunetta creata sulla
parete destra della grotta, frutto di un'esplosione postuma di
diversi giorni rispetto alla formazione della grotta.
Il suo racconto
ci avvince definitivamente quando racconta che laggiù, dove
l'orizzonte della cavità si perde in una buia e scoscesa cascata di
sassi lavici, il suolo calpestabile va avanti per altri 400 metri,
che lui in passato ha quasi interamente percorso.
Soprattutto, ci
conquista quando confessa che, sì, "qua dentro ci ho dormito,
un paio di volte. Era d'inverno, un'escursione in mezzo alla neve.
Anziché montare la tenda decidemmo di ripararci nella grotta".
Daniele ammette di averlo fatto solo perché provvisto di un sacco a
pelo 'molto buono'. Non ci spiega, anche perché non facciamo in
tempo a chiederlo, quali precauzioni abbia assunto per tenersi alla
larga da possibili visite animali, o semplicemente dalla paura.
2/3 - segue
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