Clemente, a giugno del 2007 ha 74 anni. Passeggia senza fretta, nell'andito assolato che fronteggia l'ambulatorio di paese, e non potrebbe del resto fare altrimenti vista la zoppia e il bastone con cui si aiuta. Più alto della media locale, porta due occhiali e un'espressione mai rabbiosa, anzi quasi pacioccona: quella di chi, sostanzialmente, sembra aver preso le misure ai ricordi più gravosi del passato. Clemente ha smesso di andare “sotto” vent'anni prima, dopo 37 anni di attività.
“Per queste zone, all'epoca la miniera era in pratica l'unico sbocco lavorativo. E ancora oggi, del resto, queste montagne che l'uomo ha perforato e svuotato come ha potuto, ancora oggi sarebbero piene di materiali. C'è stato un periodo che a Nebida c'erano più di 1200 minatori. Lavoravamo con turni da otto ore, ma spesso è capitato di farne anche 24 di fila: se il tuo cambio era malato, o aveva impedimenti familiari, ti toccava proseguire. Anche perché la miniera guadagnava in base alla produzione, e così noi di conseguenza. E poi, magari, capitavano gi incidenti: a me mancano due pezzi di dita, robetta: una l'ho persa sotto un vagoncino, un'altra invece a caccia.
Ho tre figli maschi e una femmina: nessuno di loro ne ha mai voluto sapere della miniera. Oggi vivono tutti nel nord dell'isola, in costa Smeralda, la femmina ha sposato un impresario edile che si è “fatto” un albergo, e dopo un po' di anni ne ha aperto un secondo. Ci vediamo 1-2 volte l'anno: per andare fin lassù è lunga, ci vogliono 3 ore e mezzo. La prima volta che ci andai provai subito odio. Una vera invidia, per tutti quei panfili ormeggiati nelle baie. Vedevo quello del principe Casiraghi, aveva pure i rubinetti in oro, dicevano in giro; loro, i nobili, se ne stavano a sedere sulle poltrone della barca come dei pascià. E quando scendevano a terra, c'era chi li omaggiava di fiori. Che rabbia.......”
(15 novembre 2007)
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