Di miniere, la Sardegna è stata costellata. Solo una, tuttavia, si è distinta per un particolarità: lo sbocco al mare. Diretto, sicuro, rivoluzionario. Una manna dal cielo, per chi ebbe l'avveniristica intuizione di realizzarla (Ingegner Vercelli), ma anche per chi ha potuto lavorarci: in mezzo secolo di attività, tra il 1910 e il '60, Porto Flavia ha messo a referto un solo infortunio mortale tra i lavoratori, quello dello sfortunato minatore che negli anni '50 rimase soffocato dai fumi dei metalli incandescenti che non scorrevano a sufficienza lungo i silos. Sì, proprio di silos era dotata Porto Flavia: otto canali verticali di collegamento scavati nella roccia, tra due distinti piani orizzontali di scavo e scorrimento del materiale (piOmbo e zinco) anch'essi frutto di quanto l'uomo era riuscito ad asportare dalla montagna, in forma di galleria. Dieci metri di distanza tra un livello e l'altro, terminavano sbucando sulla cresta della punta costiera che fronteggia il faraglione del Pan di zucchero. Qui sotto un'apposita banchina permise per lunghi decenni di abbreviare le rischiose operazioni di spostamento del minerale via mare, che in precedenza si allungavano da Cala Domestica o finanche da Buggerru, fino al centro di raccolta di Carloforte. Con Porto Flavia, l'industria mineraria e pure la sicurezza dei lavoratori compì balzi da gigante nel giro di pochi anni: nondimeno, in quei cunicoli furono impiegati spesso bambini neppure 14enni. Neppure porto Flavia era un luogo di lavoro umano.
(24 novembre 2007)
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